venerdì 27 maggio 2011

Ancora a proposito di abitudini alimentari

Grazie a chi è passato a contribuire. Ne approfitto per chiedere a chi conosce il buddhismo di correggere se sbaglio qualche definizione, questo non è un forum ma ogni spunto per imparare, condividere esperienze e discutere in modo costruttivo è benvenuto.

Parto dai vostri commenti per qualche precisazione, una di carattere generale e una relativa a come io sto vivendo questo viaggio.

E' vero, come dice Taomamma, che lo scopo della dieta consigliata dal buddhismo è duplice: non procurare sofferenza agli animali e mantenere il corpo non soltanto in salute, ma nelle migliori condizioni per praticare la meditazione, la preghiera e il controllo della mente. Per questo motivo ci sono alimenti che alla medicina occidentale sembrano sanissimi ma che nel mondo buddhista sono sconsigliati (i rapanelli??? che male fanno i rapanelli? io penso si tratti di una traduzione errata, forse per indicare altri rizomi, perchè in Oriente ci sono alimenti piccanti tipo zenzero o wasabi - si chiama wasabi? il mio giapponese è carente - che sono forse in grado di influire sulla digestione).

(Io ghigno se penso alla proibizione dell'aglio e della cipolla, può benissimo darsi che abbiano un effetto neurologico come altre sostanze, ma di sicuro esistono degli ottimi motivi di carattere pratico per non mangiarne se si vive in un convento. Vuoi mettere stare seduto per delle ore a meditare quando quello sul cuscino a fianco ti ammorba digerendo profumatamente il pranzo??? Teniamo presente che anche il precetto del lavarsi i piedi prima delle pratiche potrebbe avere un fondamento pesantemente realistico, oltre che rappresentare un segno di rispetto per i luoghi sacri...)

Di conseguenza si potrebbe prima di tutto affermare che chi pratica la meditazione deve non esagerare, il che è già di per sè una prova di sapersi controllare, e poi deve cercare di non appesantirsi con cibi e bevande se vuole reggere le lunghe sedute senza addormentarsi o trovarsi con lo stomaco che protesta per l'immobilità forzata.

Dall'esperienza diretta, posso dire che l'ultima volta che sono stata in monastero dovevo, per necessità, alloggiare in albergo, e la mezza pensione non solo era buona, ma era buonissima, per cui la sera io e Sanguedelmiosangue ci davamo dentro a mangiare e io non riuscivo assolutamente a arrivare in fondo alle lezioni senza avere, alternativamente:
sete
fame
caldo
lo stomaco affaticato
i crampi
un nervosismo diffuso.
La volta prima avevo mangiato solo quel che davano all'Istituto, più i caffè e un po' di merenda, e avevo retto molto meglio, e sì che le ore erano di più, la fatica mentale maggiore, i disagi maggiori (era febbraio e fuori dal tempietto nevicava) e ho scritto tutto il tempo, senza saltare pezzi di lezione, piegata sul mio panchetto di legno.

Ma, fatto salvo il buon senso che è parte integrante di qualunque esperienza di crescita, parliamo un attimo della dipendenza, dei vizi quotidiani, di quelle piccole abitudini a cui ci ancoriamo per reggere la fatica di andare a lavorare con qualsiasi tempo, salute e umore.
A me disturba veramente il pensiero che una tazzina di brodaglia nerastra possa influenzare la mia giornata. Calcolando che io faccio un lavoro fortemente mentale, e che davvero quando interrogo o spiego prima del caffè sono una persona diversa da quando spiego o interrogo dopo il caffè, la cosa mi dà fastidio.
Così come mi ha fatto veramente impressione una specie di crisi d'astinenza che mi è venuta una volta che non c'era proprio più cioccolata in casa (ridete? io no): non ricordo se fosse un periodo particolare, se fossi sotto stress da matti, sicuramente mangiavo più cioccolata del solito (cioè probabilmente ne mangiavo dei chili) e quel giorno mi son messa a cercare un avanzo di tavoletta o un cioccolatino per ogni dove, mi veniva il nervoso, mi faceva incazzare proprio che non ce ne fosse... e poi mi sono resa conto che avevo i crampi allo stomaco, sudavo freddo e stavo perdendo lucidità, con l'idea fissa che dovevo dovevo dovevo mangiare del cioccolato subito. Ora, non sono una grande esperta di tossicodipendenze ma "Go ask Alice" e "I ragazzi dello zoo di Berlino" li ho letti, e quel giorno devo dire che mi sono un po' spaventata. Si sa che il cacao è una sostanza nervina, ma insomma, una crisi d'astinenza no, che roba, che vergogna, ma dai!!!

Insomma. In passato, per problemi più che altro d'ansia, avevo sempre in borsa un farmaco che mi permetteva di controllare nausee e malesseri gastrici vari. Mi rifiutavo di uscire senza, e se lo finivo, soprattutto se ero in viaggio o comunque lontana da casa, ero in crisi.
Negli anni ho sostituito il farmaco con le compresse di zenzero e poi, recentemente, con lo zenzero stesso (più sano perchè ancora meno lavorato delle compresse). Ora, a casa cerco di avere sempre o lo zenzero o almeno una tisana che lo contenga, per le volte in cui digerisco male, e se parto di solito cerco di portarmi qualcosa perchè lo stomaco, in viaggio, è sempre un punto debole. Ma non devo più controllare costantemente di averlo in borsa quando esco per andare da qui a lì.

Questo per dire che, con il caffè, con il cacao e con il cibo in generale, avrei piacere di instaurare un rapporto di gradevole coesistenza, che non prevedesse un attaccamento spasmodico, una dipendenza. E' anche questo un modo per addestrare la mente e cavalcarne gli enormi poteri.

Una dritta ayurvedica.
Poichè il caffè è considerato dagli Orientali un medicinale, nell'alimentazione base, cioè al di là dei precetti religiosi, non è vietato ma, si dice, è meglio berlo raramente e accompagnandolo sempre con cannella o cardamomo, che ne diminuiscono gli effetti tossici. Il caffè al cardamomo l'ho provato anni e anni fa in casa della Frenci, dove si sperimentavano raffinatezze etniche quando io ancora metaforicamente gattonavo nella civiltà occidentale più bieca, ed è delizioso. Esistono nei bar e nelle tabaccherie delle magnifiche piccole palline di zucchero al cardamomo che si accompagnano benissimo al caffè, ne esaltano il sapore. Anche con una spruzzata di cannella non è niente male e "lega" meno la bocca.

1 commento:

  1. Ok, eccomi di nuovo (spero di non ammorbare, ma quello che scrivi è troppo interessante/stimolante!).
    Una volta, a Dharamsala, ho partecipato ad un ritiro con la ven. Thubten Chodron. Un giorno, per spiegare l'attaccamento, ha fatto un esempio che mi ha impressionato moltissimo. Ha tirato fuori una tavoletta di cioccolato e ha detto alzi la mano chi ne vuole. Eravamo tutti in India da mesi, i soldi scarseggiavano, i dolci anche e tutti quanti abbiamo alzato la mano, con la bava alla bocca. Lei ha proseguito, ok, che parte volete del cioccolato? E noi: tutta! E lei: sì, ma qual'è la parte che vi fa piacere esattamente? Il colore? L'odore? Il gusto? Ditemi quale volete e io ve la do.
    Ovviamente tutti tacevano e lei ha continuato: insomma, non sapete dirmi in cosa consiste il vostro piacere? In quale parte del cioccolato risiede la vostra felicità?
    Per farla breve: ci aveva incastrato!!! non ci avrebbe mai dato il cioccolato :(((
    Però lì ho capito cos'è la bramosia, l'attaccamento per le cose, per i cibi, per le persone. In che modo la mente inganna e trasforma. E da quel giorno mi chiedo: qual'è la parte di questo vestito nuovo che ti farebbe felice ( telefonino, o IPad, o paio di scarpe...)? e mi rispondo sempre che la felicità che vorrei è intaccata non dalla mancanza di qualcosa ma dall'eccesso di qualcos'altro, oppure che quello che io chiamo "infelicità", "tristezza", "rabbia" è solo un modo della mente per etichettare qualcosa di più complesso, oltre che di diverso.
    Vabbè. Spero di avere scritto qualcosa di sensato.
    Ciao! e grazie ancora per avere aperto questo blog

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