Il “Libro tibetano dei morti”, dell’VIII secolo d.C., “presenta la vita e la morte come un tutto costituito da una serie di realtà successive, in costante cambiamento, chiamate bardo. Il termine bardo è usato comunemente per indicare lo stato intermedio tra la morte e la rinascita, ma in realtà i bardo si susseguono in continuazione attraverso la vita e la morte, sono giunture in cui si intensifica la possibilità della liberazione, o illuminazione.” (Sogyal Rinpoche, “Il libro tibetano del vivere e del morire”, 1992).
Il bardo è uno stato, tutto quel che viviamo, in effetti, è bardo: la parola, letteralmente, vuol dire “tra i due”, quindi indica un passaggio, che potremmo vedere semplicemente come il costante fluire temporale degli attimi, perché in ogni attimo noi ci trasformiamo e non siamo quel che eravamo un attimo prima, né quel che saremo un attimo dopo.
La vita stessa è bardo tra uno stato e l’altro, così come lo è il sogno, così come lo è la meditazione.
In tal senso, noi moriamo continuamente. Non dovremmo avere paura della morte nostra, o dei nostri cari. Perché è uno dei miliardi di passaggi che facciamo, come per esempio addormentarci la sera, fiduciosi, permettendoci di “perdere” coscienza, nella certezza che la “ritroveremo” il mattino dopo. In realtà passiamo da uno stato di coscienza ad un altro e non è doloroso né terribile. Così dovremmo vedere la morte, di cui non sappiamo niente, certo, ma sappiamo qualcosa del nostro cervello quando dormiamo? No.
Un altro modo buddhista di considerare la morte è quello di pensarla come un cambio d’abito: mi levo un vestito strappato e scomodo, che non serve più, per prenderne un altro. Il corpo è un buccia che cade, il frutto non muore, si trasforma e germoglia.
Okay. Ora, però, ho il privilegio e il terribile compito di assistere a una cosa che tutti noi temiamo molto di più della morte, la sofferenza. Quella di mio padre.
E se esternamente si è vista una tizia padrona di sé che non piangeva, non alzava la voce, aveva sotto controllo la situazione e si comportava educatamente con medici, infermieri e parenti di altri pazienti, io negli ultimi due giorni sono stata e sono tuttora una palla di puro terrore, attraversata dal desiderio che la sofferenza e la morte tocchino a chiunque (o quasi) ma non a lui, e che i compiti di assistere ed essere lì a provvedere perché soffra il meno possibile tocchino a tutti ma non a me.
Seduta sul suo letto mentre cercava di trovare un ritmo nel respiro, l’ho tenuto stretto sperando di poterlo confortare e ho cercato di ricordarmi l‘atteggiamento di pace che desideravo trasmettergli, ma dentro di me avrei voluto scappare, andare dove non potessi sapere niente, dove la ferita terribile del pensiero che lui, il mio unico vero punto di riferimento da quando ho ricordi, non sia eterno, non potesse bruciarmi. Cercavo di proiettarmi in avanti a un dopo in cui lui non soffrisse più e io potessi fare pace con il fatto di non vederlo, di non parlargli, e pensavo che non sarei riuscita, che non riuscirò a essere utile, a fare quel che devo, in questa fase di passaggio dalla vecchiaia dignitosa alla vecchiaia inferma e bisognosa, dalla salute alla sofferenza, dalla vita alla morte.
Poi c’è stata la terapia intensiva, con tutti i suoi monitor. E la parte di me che cercava, con la maggior calma possibile (cioè pochina) di imparare, di assorbire insegnamenti e strategie di aiuto da queste tremende giornate, ha registrato un particolare importante. Sullo schermo si vedevano pressione, pulsazioni, ossigenazione, in pratica tutte le funzioni vitali di papà. E mentre io e mia madre gli parlavamo, lo aiutavamo a mangiare e bere, a muoversi, o io gli accarezzavo i piedi e gli rimboccavo il lenzuolo, il suo cuore cambiava ritmo, l’ossigeno fluiva in lui. Ogni minima alterazione, un cambio di argomento, un’espressione della faccia, si riflettevano precisi nei numeri che variavano sullo schermo, permettendoci di capire se con quello che facevamo e dicevamo lo stavamo aiutando a star bene o al contrario gli mettevamo agitazione o lo facevamo innervosire. Una specie di macchina della verità.
Da cui si vedeva con chiarezza scientifica che sì, chi sta accanto a un malato influenza davvero la sua salute.
Mi viene da pensare che se tutti andassimo in giro con un monitor coi numeri rossi verdi e arancio sapremmo subito come comportarci gli uni con gli altri. Voglio dire, passeremmo tanto tempo a insultare la gente o a criticarla o a ferirla o a cercare di spaventarla, se vedessimo fisicamente il dolore che causiamo?
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