lunedì 22 agosto 2011

La mia prima esperienza di ritiro

Dovevo andare a fare un ritiro di cinque giorni, a cavallo di Ferragosto, per ottemperare alle indicazioni dei primi 3 moduli del mio corso. Per una serie di ragioni, all’ultimo ho disdetto, ma ho approfittato del fatto che tutti sapessero che ero partita per fare lo stesso il ritiro di un giorno, corrispondente al primo modulo, seguendo le indicazioni date ai corsisti che lo vogliono o devono fare da sé.

Beh, non l’avrei detto: è stato facile, e anche molto piacevole.

Sono partita per Asti lasciando cane e gatti al marito; arrivando, ho trovato le tapparelle abbassate e ho deciso, in una subitanea ispirazione, di lasciarle giù, con una minima luce diurna che filtrava, per creare l’atmosfera diversa dal solito (è chiaro che chi fa il ritiro a casa, e non in un luogo apposito, ha un sacco di fattori di distrazione).

Mi sono presa esattamente 24 ore, dal pomeriggio dell’11 al pomeriggio del 12. Niente telefono o telefonino, salvo un paio di messaggi rassicuranti per la famiglia la sera (“sono viva va tutto bene vi adoro ma non rompetemi i coglioni per 24 ore se ce la fate”), niente pc, un’uscita calibrata per camminare un pochino meditando e fare la spesa, e per il resto ho fatto le mie pratiche in santa pace.

Il che ha avuto alcuni effetti.

Mi sono accorta che concentrare la mente per me è dif-fi-ci-lis-si-mo (e non è stata poi quella sorpresa) e però anche che, dopo un po’ di volte che ci lavoro, devo aver finalmente trovato il modo di stare almeno seduta sul cuscino da meditazione in modo sensato: mi formicola e mi duole qua e là, come sempre, ma almeno, nonostante le cinque ore e rotti che è durata - spalmata su 24 ore - la mia pratica di lettura e meditazione da seduta, il giorno dopo ero in grado di muovere le giunture e la schiena senza uggiolare.

Mi sono accorta che, previo accordo con la famiglia, non è affatto difficile farsi un ritiro faidate. Quella della tapparella abbassata (o del lume di candela la sera e in inverno) è una bella risorsa per trasformare la solita stanzetta dove la statua del Buddha veglia sui miei sonni e sui miei studi in qualcosa di più raccolto.

Il silenzio gradevole di una giornata d’agosto (tra l’altro non calda, perché, anche se ora siamo disperati per questo colpo di coda rovente, pensateci, quest’estate fino a Ferragosto c’è andata di lusso) può facilmente essere sostituito dalla discreta pace di una domenica (bambini di sopra permettendo, of course).

I testi da leggere e recitare a bassa voce, l’uso della campana tibetana, le candele, il cuscino, l’incenso, trasformano lo stare seduti lì come poveretti alla ricerca di un po’ di concentrazione in un rito.

E anche se le mie amiche del quarto modulo, in particolare Donna Che Si Chiede, hanno esplicitamente dichiarato che a loro la parte rituale, le offerte gli altari le prostrazioni etc, non le attirano per niente, io invece mi sento contenta di poter creare un distacco dalla mia vita di prima e dalla mia vita di tutti i giorni facendo gesti e recitando formule che vado imparando man mano.

Il gusto della novità? Sì, certo. Capisco benissimo che una persona ritenga i riti e i gesti mere formule esteriori e che, in questo senso, sia del tutto inutile per chi è nato in una cultura imparare i segni esterni della fede appartenente a un’altra cultura.
In fondo, sono tutti simboli della stessa cosa.
E a parte le ghignate che ci siamo fatte quando io ho raccontato di quella volta che, presa dalla sacralità del momento, nell’entrare in un gompa per una lezione mi sono solennemente fatta il segno della croce… lo so, che si tratta solo di gesti.

Non è che io possa credere di botto alla reincarnazione, alle vite precedenti, al trasmigrare della coscienza, alle divinità irate etc., né che ne abbia bisogno. Ma forse, all’inizio, quando i concetti filosofici sono talmente sottili che, mentre il maestro li spiega, sembra di averli capiti benissimo, e poi appena il maestro se ne va non si è più in grado di rispiegarli… un po’ di esteriorità magari aiuta a non perdere di vista l‘obiettivo. Anche stare seduti, o meditare camminando, sono azioni esteriori, però servono a entrare nella meditazione poco per volta.

E poi diciamolo, che leggendo la storia delle vite dei grandi bodhisattva e di Buddha si vedono delle somiglianze pazzesche con il Vangelo. Talmente tante e talmente forti che diventa ovvio che i buddhisti accettino la figura di Gesù come quella di un maestro; un po’ meno ovvio che i cristiani insistano sull’avere la sola verità rivelata. Quindi forse anche il segno della croce non è poi del tutto fuori luogo.

Comunque alla fine il bilancio di questa breve esperienza di ritiro è: a) mi sono sentita piena di gioia e pace esattamente come quando vado a Pomaia (e questo, a livello umano, psicologico ed egoistico, è già un signor motivo per rifarlo) e b) ho tantissima strada da fare per arrivare a meditare cinque minuti di fila in modo almeno almeno decente.


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