domenica 26 giugno 2011

Il concetto di Dio parte terza

Un altro importantissimo aspetto dell'assenza di Dio nel buddhismo sta nel fatto che il buddhista (quello tibetano, almeno) deve compiere DA SOLO un lavoro INTERIORE di COMPRENSIONE INTELLETTIVA.

DA SOLO. Cioè, se sbaglia, se è in dubbio, se soffre, se non capisce, se si dibatte nella sua umana imperfezione, non può inginocchiarsi e chiedere aiuto. Sì, c'è il rito propiziatorio, c'è il guru a cui chiedere una dritta. Ma il grosso del lavoro va fatto dentro di sè, senza sperare nella grazia, nel perdono, nell'amnistia, nell'indulto, da parte di un ente superiore.

Il lavoro è INTERIORE. Cioè, per quanto ci sia il guru, per quanto ci sia il sangha, ogni buddhista deve guardare dentro di sè e trovare la SUA soluzione. Non può aspettare che qualcuno gli faccia luce, meno che mai imitare l'operato di un altro. Non può estroflettere la sua condizione e scaricarla su un rito, su un confessore, su una comunità. Può solo sedersi in solitudine e ininterrottamente GUARDARSI. E adesso ditemi
a) quante persone conoscete - incluso noi stessi - che sono oneste con se stesse e sono in condizioni di scandagliare perfettamente le proprie motivazioni, azioni e convinzioni
b) quante persone conoscete - incluso noi stessi - che FANNO un sacco di cose per se stesse ma non SI GUARDANO mai, non si mettono mai in discussione
c) quante persone conoscete - incluso noi stessi - che fanno un sacco di cose per gli altri ma progrediscono poco o nulla quanto a maturazione e crescita proprie.

E per finire il lavoro richiesto a un buddhista (soprattutto tibetano) NON E' un lavoro di fede: non ci si siede a guardare le proprie azioni e motivazioni ripetendo "io credo", "io prego", "io spero".
Ci si siede e CI SI SFORZA DI CAPIRE. Con la testa. Con il cervello, proprio.
Questo è il significato di "Se incontri un Buddha, uccidilo". Un buddhista non deve accettare passivamente un insegnamento, avere una rivelazione, credere per fede o tantomeno ispirarsi a livello sentimentale, deve CAPIRE, DA SOLO, CON IL PROPRIO SFORZO. La parola che più spesso ricorre nei testi di meditazione non è "respiro", "concentrazione" o "calma", è "SPERIMENTARE". Che, fino a prova contraria, è un termine scientifico.

Il venerabile Osvaldo (lo so che detto così sembra un personaggio del "Corrierino dei piccoli", ma chiamarlo Thupten Tarpa mi fa strano, dopo aver parlato per tre giorni con un monaco chiarissimamente occidentale con la erre moscia e un passato da dirigente d'azienda in Lombardia) ci ha detto varie volte durante il corso di febbraio: "Mettete alla prova tutto quello che dico".
E' questo lo spirito.

2 commenti:

  1. Concordo su tutto. Non mi sono mai sentito tanto "solo" prima di diventare (se così si può dire) buddhista. Poi in tutti i gruppi c'è chi cerca un surrogato di branco o di famiglia in cui mimetizzarsi e da cui prendere atteggiamenti e risposte, ma non è questo il modo giusto di vivere il sangha o il rapporto con un maestro/guru/lama.
    Una volta un maestro Zen mi disse che il suo compito era quello di portarti sul ciglio di un burrone e poi di colpo buttarti giù, mentre il tuo compito è quello di imparare a volare da solo.

    Per me il problema è trovare maestri così coraggiosi da poter perdere un allievo e allievi così coraggiosi da rischiare tutto.

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  2. Hai detto bene, serve un enorme coraggio per questo tipo di scelte.
    E però, io mi sentivo peggio all'interno di una chiesa che ti dice sempre dove stai sbagliando e che sei imperfetto, e quasi mai "bravo, qui hai fatto bene" e ti lascia a scegliere da solo, mettendoti paletti ovunque, per poi giudicarti.
    Invece, per ora, vedo che nel sangha io devo quotidianamente fare un bagno d'umiltà perchè non so le cose, devo continuamente rimettere tutto in discussione e tirarmi su le maniche, ma quando arrivo a un risultato è il mio risultato e mi dà forza e sicurezza, che nessuno può togliermi.

    Castagna unlogged

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